Al Forex di Torino, tredicesima fiera degli operatori finanziari, il governatore della banca d’Italia, Mario Draghi, ha messo sul piatto, con l’autorevolezza che gli è propria, due grandi questioni: quella fiscale e quella previdenziale. Mica male come provocazione: una infatti è ignorata, l’altra costantemente sottovalutata dal nostro governo.
Il governatore ha ricordato come la pressione tributaria in Italia sia troppo alta, deprima i consumi e penalizzi le imprese. Si noti che Draghi non è un fautore dell’”irresponsabilità fiscale”. Nello stesso discorso, ha sottolineato la necessità di muoversi verso un bilancio <strutturalmente in pareggio>, andando avanti col machete sulla strada della riduzione del debito. Che, per l’autore della legge Draghi e massimo interprete (quand’era direttore generale del Tesoro) della stagione “mercatista” del primo Prodi, significa soprattutto: privatizzare! Andando avanti cioè a ridurre l’intervento dello Stato in economia con il far cassa attraverso la dismissione di interi comparti che la cosa pubblica gestisce male e ad alto costo.
Draghi ha anche ricordato che i lavoratori in Italia continuano a sovrastimare l’entità della loro pensione futura, e la previdenza complementare stenta a decollare. Questo è indubbiamente un problema, ma va affrontato alla radice. Cioè evitando di procrastinare l’aumento dell’età pensionabile, e invece affondando il coltello dove si deve: riformare le pensioni, convincere i lavoratori che l’allungamento della vita media implica una dilatazione dei tempi della vita attiva, promuovere forme privatistiche anche nel settore della previdenza.
Il messaggio di Draghi è stato potente. In un periodo nel quale non mancano chiacchiere su riforme più o meno urgenti (dalla liberalizzazione dei parrucchieri alle infrastrutture, che il governo vorrebbe finanziare con un nuovo Iri), il governatore della Banca d’Italia ci ha riportato al tema dei tempi nostri: l’insostenibilità dello Stato sociale, per come lo abbiamo ereditato dalla grande stagione della spesa pubblica.
Sottolineo due punti. Primo, non vorrei che a Draghi capitasse quello che è avvenuto al suo collega presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, quando si è azzardato a criticare una legge (la Gentiloni) pensata per penalizzare il capo dell’opposizione. Cioè, non vorrei che la sinistra ne disconoscesse il ruolo e l’autorevolezza. Sui quali non possono esserci dubbi. Non solo perché Draghi, come successore di Antonio Fazio, è stato scelto di fatto da Berlusconi ma con l’avallo di Prodi, in una fase istituzionalmente assai delicata nella quale l’allora maggioranza e l’allora opposizione hanno trovato una convergenza sul suo nome semplicemente perché scelte diverse non erano possibili. Ma anche perché Draghi è Draghi, ha lavorato con Ciampi ed Amato, è stato uno dei nostri uomini di finanza più apprezzato nel mondo, è ben noto alle grandi istituzioni internazionali, non è, dunque, il fuoco di paglia acceso da una parte politica contro un'altra.
In secondo luogo, non vorrei che le questioni sollevate dal governatore fossero derubricate a dibattito del passato. La riforma del welfare era al primo punto dell’agenda politica negli anni Novanta, la questione fiscale è stata il cavallo di battaglia del berlusconismo, ma in entrambi i casi alla discussione politica non è seguita una vigorosa azione politica. Questi nodi del passato restano da sciogliere. E finché non li scioglieremo, il futuro dell’Italia non potrà essere sereno.