L’addio di Nicola Rossi ai Diesse è già stato ampiamente commentato dalla stampa. Michele Salvati, sul Corriere, ha riservato all’ex compagno una stilettata durissima, paventando che dietro l’addio di Rossi e, soprattutto, la sua adesione al tavolo dei “volenterosi” (lo stesso animato da Tabacci e Capezzone) vi sia l’ambizione di “sorpassare” il bipolarismo. Non credo sia questo il caso. Nicola Rossi non è esclusivamente un riformista: è un liberale, e i liberali sanno bene come nelle democrazie a modello bipolare sia più facile fare le riforme che non nelle democrazie “consociative”. Basta pensare al caso italiano. Se Silvio Berlusconi non fosse sceso in campo, col suo vocabolario liberista, la sinistra sarebbe ancora quella della “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto. Una sinistra, cioè, dalla quale non solo Rossi non sarebbe mai uscito, ma nella quale non sarebbe mai potuto entrare. Il bipolarismo ha modernizzato la destra e la sinistra, avvicinandoci di più ai grandi Paesi dell’Occidente. Non è un valore in discussione, fra coloro che – di qua oppure di là – desiderano dare una svolta al Paese.
C’è un elemento che non comprendo, della scelta di Rossi, ovvero il fatto che egli abbia restituito la tessera dei Diesse ma resti nel gruppo dell’Ulivo. Mi è sembrato un modo per restare in mezzo al guado. Mi delude un po’. Dopo che Berlinguer dichiarò esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre, la presa di posizione di un dalemiano come Nicola Rossi mi era sembrata l’inizio di una nuova scoperta (per me non tanto nuova) e che cioè è finita la spinta propulsiva al cambiamento non solo del comunismo ma anche del post-comunismo e della sinistra. Il riformismo non può più abitare lì… Invece Rossi continuerà a votare il governo Prodi, ma rinuncia a cambiare il suo partito d’origine. Da avversario politico, avrei preferito il contrario. Se proprio doveva evitare eccessivi strappi, avrei preferito il contrario: cioè che smettesse di votare con i prodiani, il cui statalismo deve fare orrore a ogni buon economista liberale (e Rossi è un ottimo economista liberale), ma restasse nei Diesse, facendo lì una battaglia per affrancare quel grande partito dalle ultime scorie del suo passato.
Comunque, rispetto la sua scelta e dico che se oggi per i riformisti di destra e di sinistra non è proponibile realisticamente una casa comune, servono però battaglie comuni. Se ci pensate, la cultura del veto ha autorevoli sostenitori in entrambi gli schieramenti, e quando serve riescono a fare fronte comune. Dovrebbe essere la stessa cosa per la cultura del fare. Liberisti più forti a destra, e riformisti più forti a sinistra, potrebbero dare un nuovo spunto al sistema politico italiano, senza per questo indebolirne le fondazioni ormai saldamente bipolari.
E’ chiaro che il paragone, però, non regge appieno. Anche chi criticava il “deficit” liberale del governo Berlusconi, oggi lo rimpiange. Non abbiamo fatto tutto quanto dovevamo fare, per il bene del Paese, delle imprese, delle famiglie, quand’eravamo maggioranza, ma abbiamo fatto tanto. L’attuale governo estrae a casaccio le sue ricette da un calderone in cui rimesta il peggio degli anni Settanta. E’ gente che ha nostalgia per una “politica industriale” muscolare, cui mancano le grandi imprese di Stato che non ci sono più (e da cui viene il premier), la cui concezione della fiscalità è rigida e keynesiana. Qui non parliamo di “peccadillos”, ma di un tuffo nel passato la cui conseguenza prima e più ovvia sarà un’Italia depressa, nonostante il mondo dia segnali di ripresa.
In conclusione, dovunque decida di metter su casa: forza, Nicola.