Il summit del governo Prodi a Caserta non ha messo in campo soluzioni ai problemi del nostro Paese, ma ha sicuramente seppellito una leggenda. La leggenda di un centro-sinistra pronto alla modernizzazione e alle liberalizzazioni. Liberalizzazioni annunciate a raffica (“una lenzuolata”) dal ministro Bersani proprio alla vigilia dell’incontro, ma subito oggetto di intensa negoziazione politica. Non, si badi, da parte delle forze neo-comuniste. Ma da parte del vicepremier Rutelli, il quale è un paladino della concorrenza, ma solo fintanto che i provvedimenti pro-concorrenziali recano la sua firma, o quella di un altro esponente della Margherita (sia Gentiloni o la Lanzillotta).
Insomma, ci aspettavamo che a Caserta andasse in scena l’ennesimo scontro riformisti-radicali, che è l’eterno tiro alla fune cui questo esecutivo pare costretto sin dalla nascita. Invece, si è consumata una faida tutta interna agli sparuti ranghi dei riformisti. I quali ci hanno dimostrato che non sono disposti ad andare oltre le beghe di parrocchia, per portare a casa il risultato delle agognate riforme. Insomma: riformare a sinistra è impossibile. Ciascun riformista fa il blocker della riforma altrui. E quando mai si mettessero d’accordo ci pensano Diliberto, Giordano e Pecoraro.
Questa vicenda è doppiamente sconcertante, se si tiene conto che appena all’inizio di gennaio era suonato il campanello d’allarme dell’uscita di Nicola Rossi dai Ds, di cui ci siamo occupati anche su queste pagine. Anziché leggerlo come un richiamo all’unità e all’efficacia, i Rutelli e i Bersani ne hanno preso atto con spietato politicismo. La grande attenzione mediatica suscitata dall’economista pugliese ha confermato loro la bontà di un’antica intuizione: “liberalizzare”, nell’Italia di oggi, è un verbo assai apprezzato, soprattutto fra le nostre élite. Merita dunque un investimento politico. Bersani ci ha provato sul serio a liberalizzare (è il ministro più bravo della compagnia insieme ad Amato e Parisi) e si è giocato il suo capitale di reputazione in questo slancio. Per evitargli questo blasone, Rutelli lo ha placcato. Non può sopportare che sia un altro, per di più un diessino, ad accaparrarsi la pole position di moderato e di liberale, e lo ha stroncato. Rutelli sa benissimo che con questo governo si riuscirà al massimo in qualche liberalizzazione minore, riformette magari utili ma circoscritte ad ambiti limitati (i farmaci da banco e i panettieri del “decreto Bersani”, per intenderci), e vuole rubare la scena all’emiliano. E così nel centrosinistra è andata in scena questa stucchevole guerra fra riformisti inconcludenti, fra marinai che sulla stessa barca non remano assieme ma litigano per fare il capitano di una guerra perduta.
Caserta allora ci ha dimostrato come la maggioranza prodiana non senta affatto il bisogno delle riforme. E il problema non sta come tutti credono nei Franco Giordano o negli Oliviero Diliberto, che comunisti erano e sono, ma almeno quelli non ingannano. Sta proprio nei cosiddetti “riformisti” il guaio: sostengono di avere voltato pagina, e di aver imparato, ancor meglio della destra, il vocabolario delle idee liberali. Tranne che un piccolissimo punto. Un politico liberale “onesto”, come diceva Benedetto Croce, non si limita al pensare, ma lo trasforma nel fare. Per usare una bruttissima parola rubata all’inglese, “implementa” le sue elaborazioni. Loro si accontentano di enunciarle. Tanto non passano e non passeranno mai con questo governo.