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Borsa al palo, perché tassare le rendite

23/01/2008- Panorama Economy n. 4

Nel 2007, la nostra è stata la peggiore borsa d’Europa con un secco meno 7%. È il caso di introdurre misure che la penalizzino ancora di più?
E’ questo che mi chiederei, se fossi nei panni del ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, il quale si appresta ad avallare la tassazione delle cosiddette “rendite finanziarie” (che forse, visti i chiari di luna, si potrebbero derubricare a “perdite finanziarie”).
L’obiettivo dell’esecutivo (che pure in passato aveva spergiurato non si sarebbe avviato sulla strada da tempo indicata da Rifondazione) è portare al 20% l’aliquota sui guadagni da capitale realizzati in borsa e sui rendimenti delle obbligazioni. Questo significa di fatto far crescere del 7,5% la tassa sul capital gain che un risparmiatore può incamerare cedendo un titolo o vendendo un’azione. La manovra colpirebbe anche i detentori di titoli di Stato, Bot, Cct e Btp, nonostante si parli di tassare solo le nuove emissioni; una misura che buona parte degli analisti ritengono impossibile da concretizzare, all’atto pratico. Fatto sta che gli interessi corrisposti a chi investe sul debito pubblico italiano andrebbero anch’essi al 20%.
Il governo parla di “armonizzazione” perché diminuirebbe dal 27 al 20 l’aliquota sui guadagni frutto degli interessi sui conti correnti. Anche questa misura è paradossale: siamo tutti contenti, se ci tassano di meno il conto in banca. Ma in un Paese molto conservatore quale è il nostro, e finanziariamente ingessato, l’effetto netto di diminuire la tassazione sui depositi correntizi alzando quella sulle azioni, è un disincentivo al risparmiatore che vorrebbe esercitare la sua creatività con investimenti più complessi, “adulti” e richiedenti maggiore pensiero, che parcheggiare i soldi in banca.
Uno dei più straordinari fenomeni cui assistiamo in Inghilterra e negli Stati è l’ampia “finanziarizzazione” del piccolo risparmio. Due terzi degli americani sono oggi risparmiatori ed “azionisti”. I guru della sinistra si lamentano che la ricchezza nel mondo moderno è sempre più concentrata. Ma la proprietà non lo è: la proprietà si diffonde sempre di più, e il super-stipendio di pochi si giustifica proprio nel momento in cui riesce a valere guadagni nell’investimento di molti. Questo è un fenomeno di straordinaria alfabetizzazione economica e grande democratizzazione. L’Italia ne resta ai margini e il risultato è sotto i nostri occhi: la politica può permettersi di avanzare proposte che vanno contro l’interesse concreto dei cittadini, senza pagare dazio.
Allarmato da questa prospettiva, Oscar Giannino su Libero consigliava a chi può, di tornare a trasferire i propri soldi all’estero. Si deve però ricordare che negli ultimi anni c’è un classico bene-rifugio, di quelli che all’occorrenza ci si riesce a mettere al polso, attaccare al collo, o nascondere sotto il materasso, che ha avuto una pazzesca crescita di valore. E’ l’oro, che dal 1999 non perde colpi, e che nel 2007 con la crisi sub prime si è apprezzato del 30 per cento rispetto al dollaro.
L’apprezzamento dell’oro è frutto della crescente insicurezza sui mercati internazionali, e non ha ovviamente a che fare con le attività del governo italiano. Tuttavia, è un segnale interessante (e preoccupante) di come gli investitori considerano (non positivamente) la gestione delle valute e dei mercati finanziari da parte delle banche centrali. E gli italiani all’insicurezza internazionale debbono sommare l’incertezza creata da questo governo.