I giornali hanno dedicato molta attenzione all’anniversario del ‘68, che cade quest’anno in cifra tonda, ma sono stati più timidi, per ora, nel ricordare i sessant’anni della Costituzione. Questa semi-distrazione ha fatto sì che l’unico ricordo sia stato, per ora, lasciato a campagne di carattere istituzionale, che issano la Costituzione come fosse una bandiera, per cui cambiarla sarebbe come sporcarla.
Invece, personalmente apprezzerei molto se questo anniversario potesse avere una dimensione “critica”. Che non significa distruttiva, né tantomeno irrispettosa delle motivazioni più profonde che animarono i costituenti. Ma capace di contestualizzare il valore della Costituzione, questo sì; e anche di comprendere come mai, soprattutto per stimolare la vita economica del Paese, la nostra sia ormai una carta nobile ma inadeguata, come un dirigibile splendente nell’epoca dei jet.
Il primo politico ad avere una visione chiara della necessità di ammodernare la Carta è stato Bettino Craxi. Purtroppo non ha avuto successo, e nemmeno chi lo ha seguito: le proposte di drastica riforma costituzionale di Gianfranco Miglio ad inizio anni Novanta, il tentativo bicamerale di Massimo D’Alema, la “devolution” votata dalla Casa della Libertà e finita nel dimenticatoio dopo un tragico referendum. La parola d’ordine era “la Carta non si tocca”.
Solo che a furia di non toccarla, i problemi si accumulano. Credo che abbia molta ragione Renato Brunetta, quando ricorda che i guai più grossi non stanno nella seconda parte (irriformabile, perché non c’è accordo sulla riforma) ma nella prima (irriformabile, perché tutti concordano sul non toccarla). Essa contiene infatti enunciazioni di principio che poi pesano come macigni nella quotidianità della politica. Bisogna stare attenti a non sottovalutare mai l’importanza delle idee.
Farò solo due esempi. Il primo, è il limitato riconoscimento della proprietà privata che la Costituzione offre, subordinandola al soddisfacimento di fini socialmente condivisi. Questo non solo arma la mano dello Stato negli espropri: ma lascia quell’impressione, viva lungo tutto lo spettro politico, che da noi i diritti di proprietà siano figli di un Dio minore. Lasciando tra parentesi qualsiasi considerazione di principio, questo è tragico, perché la tutela dei diritti di proprietà è il più poderoso incentivo che spinge la gente a lavorare e a produrre. Se essa è in forse, se cioè non è chiaro in quale misura i frutti del mio lavoro resteranno miei, tale incentivo al lavoro drasticamente diminuisce. Non è un pensiero reazionario a guidarmi, tutt’altro. Basterebbe leggere le considerazioni sulla proprietà privata di Antonio Rosmini, fatto beato da pochi mesi, e autentico liberale.
C’è poi un altro problema: la tutela costituzionale che il nostro ordinamento dà al diritto di sciopero. Che l’astensione dal lavoro sia uno strumento contrattuale potentissimo, e decisivo anche alla emancipazione operaia, è fuor di dubbio. Ma la tutela costituzionale è tipicamente riservata ai diritti fondamentali. Bisognerebbe tutelare costituzionalmente ed esplicitamente anche il diritto dei più deboli a non essere vessati dagli scioperi altrui, ciò che l’articolo 40 non fa.
Potrei continuare il mio cahier de doléances. La Costituzione disciplina con quattro articoli l’operato dei sindacati, ma non parla di concorrenza - per esempio. È scritta per un’epoca in cui l’imprenditoria pubblica era ancora un’opzione. Andrebbe aggiornata per continuare a garantire diritti sì, ma non il diritto di far male al Paese.