Liaquat Ahamed ha scritto un libro interessante, si intitola: “Lords of Finance. The Bankers that broke the World”, Signori della Finanza. I Banchieri che hanno mandato in malora il mondo (traduzione libera). E’ l’appassionante storia dei banchieri centrali che a suo dire, a cominciare dal presidente della FED Benjamin Strong, hanno causato o accompagnato lo svolgimento della Grande Depressione (‘29-‘35). Le cui radici, scrive Ahamed seguendo Keynes, affondano nelle assurde condizioni di pace stipulate alla fine della prima guerra mondiale. Non voglio entrare nei dettagli storici di un periodo ripercorso con minuzia di dettagli. Basti qui, riassumere la tesi. Per Ahamed, il drammatico svilupparsi della Grande Depressione è stato conseguenza diretta dell’inazione da parte di quei banchieri centrali: del loro essere rimasti colpevolmente ancorati a vecchi paradigmi.
In Italia, è appena stato reso disponibile in edizione economica un libro, “La Grande Depressione” di Murray Newton Rothbard (Rubbettino), la cui tesi è opposta eppure simile. Per Rothbard, non è stato il deficit di attivismo da parte dei governatori delle banche centrali a cagionare la depressione: al contrario, è stato un eccesso di attivismo, uno spregiudicato giocare con l’offerta di moneta.
Ciò che unisce i due libri è il punto di partenza: forse scontato, ma oggi non banale. Le crisi non hanno un corso segnato. Chi, come il sottoscritto, segue il grande Joseph Schumpeter, pensa che la storia del libero mercato debba necessariamente essere punteggiata di crisi. Dice Schumpeter: nei periodi espansivi, vi è un eccesso di “combinazioni industriali”, nascono nuove imprese all’impazzata, il mercato ne finisce drogato e poi s’impone una imprescindibile correzione. Vedi alla voce: “distruzione creatrice”, cui ha accennato Mario Monti sul Corriere della Sera. Ma il processo politico non assiste inerme. Può condizionare il modo in cui questo avviene (per esempio, attraverso tassi d’interesse troppo bassi per troppo tempo), e rispondere in modo inefficace allo svilupparsi della crisi. Il politico ha, in tutta evidenza, un orizzonte diverso da quello dell’economista o dello studioso. Quest’ultimo, può dedicarsi al conoscere. Il decisore deve deliberare. La deliberazione dovrebbe seguire, einaudianamente, un processo di apprendimento e di conoscenza. Ma i tempi sono quelli che sono, specie in mercati finanziari caotici e frenetici come quelli in cui viviamo.
Però, a furia di deliberare senza conoscere, si può fare più male che bene. Penso che il caso della nuova Amministrazione Usa sia paradigmatico. Obama fa il pragmatico, ma tanto bisogno di pragmatismo e di azione può condurlo a finire come l’asino di Buridano. Parla di aiutare uno sviluppo più ecologico dell’automobile. Però poi deve distribuire aiuti alle Big Three americane: attori economici fallimentari, ma anche produttori di auto fortemente inquinanti. Se vogliamo più macchine verdi, chi ha senso aiutare? Chi le ha già nella sua filiera, o chi dovrebbe reinventare ex novo modelli, impianti e stabilimenti?
Obama parla di limitare i salari dei manager delle imprese che sono, in toto o parzialmente, in corso di statalizzazione. Che cioè dovranno ricevere aiuti di Stato, per sopravvivere sul mercato. L’idea non è male. Parte da una constatazione: se avete avuto bisogno dell’obolo pubblico, vuol dire che non eravate gestiti granché bene. Ora, però, mettiamo che un’azienda che accetta l’obolo pubblico e decida, giustamente, di ristrutturarsi, scelga anche di cambiare manager. Di mettere alla porta chi l’aveva condotta sul lastrico. In questo caso, imporre un tetto allo stipendio significa una sola cosa: si attrarranno manager che non possono trovare opportunità più remunerative. Che non mi sembra una grande idea, perché ristrutturare un’azienda è persino più difficile che fondarla da zero. Non sarebbe più efficiente licenziare chi ha sbagliato?
L’amministrazione Obama si muove così. Naviga a vista. Mette in campo strategie apparentemente contraddittorie. Sconta un grande colpo alla propria credibilità: quanti ministri sono stati ripudiati, perché non hanno pagato le tasse. In Europa, come siamo messi? Sarkozy e la Merkel annunciano piani meglio definiti. Il nostro governo s’è messo in moto presto e bene, uno dei pochissimi a capire che ci sono serissimi problemi di finanza pubblica, da fronteggiare oggi e in prospettiva.
In generale, però, l’Europa sembra paradossalmente meno disorientata degli Usa. Dove una politica improvvisata può peggiorare la crisi.