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Pensioni e Welfare, tra riforme e aspettative sociali

2/02/2009- Panorama Economy - Controvento

La settimana scorsa, si è consumato un dibattito abbastanza curioso, all’interno del governo. In realtà, si è trattato di una divergenza d’opinione legittima e comprensibile, come sempre fra persone che amano il proprio Paese e pensano al suo futuro, ingigantita dai giornali. Il Ministro Tremonti, nel suo intervento a Davos, ha detto che l’Italia dovrebbe riformare pensioni e welfare. Il Ministro Sacconi, che sul tema è quello competente, nella squadra di governo, ha chiesto cautela. La riforma delle pensioni non è all’orizzonte, ha detto Sacconi.
A Sacconi, ottimo ministro, mi legano da anni stima e amicizia. E comprendo bene lo spirito delle sue dichiarazioni e, in realtà, più in generale del suo operato, in questa fase storica. C’è un tema importante, di sostenibilità e di pace sociale. Sacconi è un riformista autentico e coraggioso, che nei mesi scorsi ha licenziato un “Libro Verde” sul rinnovamento del nostro modello sociale, che cerca di guardare avanti negli anni, di ripensarne gli assi portanti. Ma Sacconi è pure un attento conoscitore del mondo sindacale e del lavoro, che comprende bene quanto sia difficile convincere le parti sociali ad accettare una riforma delle pensioni che sarebbe l’ennesima, dalla Dini ad oggi.
Fra Tremonti e Sacconi, c’è al massimo una differenza di toni, di sfumature. Sacconi ha chiaro più di ogni altro che il welfare va cambiato. E sa anche come. Bisogna costruire (questo il titolo del Libro Verde) “la vita buona nella società attiva”. Le sue prudenze sono il riflesso di una grande consapevolezza. Nei mesi a venire, finché la spirale della crisi economica non s’arresta, tutti i governi del mondo dovranno navigare a vista.
Vorrei però dire, all’amico Maurizio, che forse questa volta sono i toni di Giulio Tremonti quelli più appropriati.
La crisi, purtroppo, pone i sistemi previdenziali sotto grande stress. Negli anni scorsi, alcuni Paesi hanno fatto grandi riforme. La madre di tutte le riforme è quella che ha condotto prima il Cile, poi altri Paesi, ad adottare sistemi a “capitalizzazione individuale”. Questi sistemi hanno superato il problema dell’età pensionabile, trasformando - di fatto - i contributi previdenziali in risparmio obbligatorio per i singoli lavoratori. Oggi circa 70 milioni di lavoratori al mondo hanno una previdenza di questo tipo. E sicuramente essi sono impoveriti dalla crisi finanziaria. Questo sistema ha molte virtù, ma i suoi rendimenti dipendono dagli andamenti del mercato. In un periodo di grande incertezza e volatilità, essi soffrono molto.
Ma i sistemi pubblici, come il nostro (ancora sospeso fra sistema a ripartizione, e sistema contributivo), se la passano meglio? No, anzi forse stanno peggio. Essi sono sistemi a prestazione definitiva, che hanno preso nei confronti dei lavoratori impegni precisi. Il numero dei pensionati va aumentando, e dunque le uscite sono necessariamente in aumento, nei prossimi anni. E le entrate? Nei sistemi a ripartizione, i lavoratori di oggi pagano le pensioni di oggi. La popolazione attiva diminuisce, e i pensionati aumentano. Quindi anche le entrate diminuiscono, mentre - come abbiamo già visto - le entrate continuano ad aumentare.
A ciò va aggiunto il più serio dei problemi. Infatti, gli assets degli istituti previdenziali si deprezzano. Diminuiscono di valore gli investimenti (e non ci risulta che l’Inps abbia comprato oro!), e anche gli investimenti immobiliari, che in passato hanno dato certezza e anche utili, ma ora sono sulla china discendente.
Lo scenario di medio periodo è quello di un sistema previdenziale che non riuscirà a dare ai nuovi pensionati ciò che ha promesso loro, con ricadute sul debito pubblico e probabilmente tensioni sociali molto forti e diffuse.
Prevenire è meglio che curare. E prevenire vuol dire alzare l’età pensionabile. Magari a 65 anni. Con l’eccezione degli usuranti, il lavoro per persone ormai mature è una ricchezza. Oggi un sessantacinquenne è un uomo nel pieno delle forze, che ha statisticamente davanti ancora vent’anni di vita. La sua esperienza può essere un valore aggiunto. Il lavorare fino a quell’età può dare la possibilità di costruire risparmio e capitale, nel momento della vita in cui si ha psicologicamente più propensione a farlo. Con ricadute positive a largo raggio, per tutta l’economia.
Caro Ministro, so che ci sarebbe una forte reazione dei sindacati. Ma se continuiamo ad aspettare, è probabile che la reazione diventi ancora più forte. E più motivata.