Ha torto o ha ragione Barack Obama a chiedere indietro i soldi alle banche? Bisogna distinguere, il piano dei principi e quello della prassi.
Cominciamo con una verità sottaciuta: la crisi non è finita, non è possibile parlarne al passato. Non è possibile perché tutti i fattori di instabilità sono ancora lì, dove li avevamo lasciati. Non parlo dell’Europa e dell’Italia, dove è stato messo fieno in cascina. Anche se in molte pance sono nascosti ancora titoli tossici in quantità sconosciute. Parlo degli Stati Uniti. La crisi parte dalle grandi banche americane. Come ha spiegato John Taylor nel suo libro “Fuori strada” (pubblicato in italiano con una utile prefazione di Oscar Giannino), tutto ha origine da una politica monetaria lasca. Il denaro è costato troppo poco. Perché? Perché così doveva essere per impedire uno stop dell’economia americana, con il crac della “new economy” a fine anni Novanta e poi con l’11 settembre. Alan Greenspan scelse di agire usando la leva monetaria. Nessuno glielo rimproverò allora, e anzi tutti tirammo un sospiro di sollievo. Ma è successo che la percezione di avere a disposizione abbondante liquidità a poco prezzo ha reso le banche meno timorose dei propri errori. Si sono presi rischi a cuor troppo leggero. Avevano in testa (consolidata dal “salvataggio” del fondo Long Term Capital Management proprio da parte di Greenspan) che alla fine la FED e il governo americano non avrebbero mai permesso il fallimento di grandi istituzioni finanziarie.
Così siamo arrivati alla crisi attuale. L’idea che si sarebbe stati, comunque, salvati, ha fatto sì che si agisse in modo sconsiderato. Purtroppo, questo problema sin qui non è stato risolto. Non è stato risolto perché è un problema difficilissimo da risolvere. Gli economisti parlano di problema di “too big to fail”, troppo grande per fallire, o di azzardo morale, rubando la parola al gergo delle assicurazioni. Ma un’assicurazione è di solito qualcosa che le persone mettono in atto per amor di prudenza. Qui l’assicurazione è stata fattore di incoscienza.
Si parla di introdurre maggiori requisiti di capitale per gli istituti di credito. Peccato che nessuno sappia quali sono i requisiti di capitale “giusti”.
Obama e gli americani hanno fatto molte iniezioni di capitale alle banche, sostenendole direttamente. A parte Citigroup, però, tutte le altre hanno restituito in parte i quattrini prestati: andando così, in qualche modo, a compensare per i grossi aiuti. Ciò che purtroppo non si può restituire è l’assicurazione che, in caso altre circostanze di questo genere si presentino, i governi si comporteranno alla stessa maniera. Questo è il problema di Edipo. Conoscendo una previsione sul futuro, si finisce per contribuire a farla avverare. Sapendo che verranno salvate, le banche possono prendere troppi rischi e pertanto finire in condizioni in cui avranno bisogno di essere salvate!
La risposta di Obama è una tassa: una tassa molto significativa. L’idea è buona ma problematica. Buona perché gli istituti di credito devono capire che la festa è finita: un segnale dal governo serve. Problematica per due motivi diversi. Uno, la tassa di Obama non la pagheranno le due agenzie parapubbliche Fannie e Freddie, che sono state al centro della bolla immobiliare e che hanno contribuito tantissimo a far deflagrare la crisi. Due, se la tassa è troppo alta finirà per contribuire alla stretta del credito, diminuendo artificialmente la quantità di denaro erogato alle imprese. Il che, per la ripresa dell’economia, è pericolosissimo. Quanto a tagliare i bonus ai manager di banche debitrici con lo Stato, questa scelta di Obama è sacrosanta, per dirla con la Bibbia è “olio che scende sulla barba di Aronne”, e Dio sa se oggi c’è bisogno di attingere da questa fonte citata ma dimenticata.