La stabilità dei conti pubblici è fondamentale. Ha ragione Giulio Tremonti: è in essa che affonda le proprie radici la coesione sociale, un Paese in bancarotta o alle soglie di essa (vedi Grecia) può esplodere. Senza numeri a posto non si va da nessuna parte. Ma deve cominciare una fase nuova. Ora. Perché il resto della legislatura non finisca con l'immiserirsi in bagarre da cortile fra fratelli coltelli.
Mi spiego meglio. Lo sappiamo bene. Il nostro eterno cruccio è il rapporto deficit/PIL. In quindici anni siamo passati dal 120 al 118 per cento. Come dire: miglioramento millimetrico. I conti pubblici vanno indubbiamente meglio: la cura Tremonti si sente. Quello che non va bene è il PIL. Quando il PIL anziché crescere si rattrappisce, anche se il deficit viene contenuto il rapporto deficit/PIL peggiora.
La grande missione cui questo governo è chiamato è, purtroppo (dico purtroppo perché si tratta di una fatica improba) e per fortuna (infatti è un colpito esaltante), quella di abbassare il deficit e fare crescere il PIL assieme. Tremonti ha avuto, in quest'ambito, un'intuizione corretta. Per citare il titolo del bel libro appena sfornato dal suo antico maestro Franco Reviglio: Bye bye Keynes. Keynes è morto e sepolto, e il genere di politiche che l'ortodossia keynesiana consiglierebbe di porre in atto sono state ulteriormente screditate, proprio dallo scadente risultato della risposta super-keynesiana che alcuni Paesi occidentali hanno cercato di dare alla crisi. I Paesi che, a differenza nostra, hanno adottato piani di stimolo ambiziosi e vasti non escono meglio dalla crisi di quanto noi si faccia. Al contrario, la differenza - dopo che la recessione americana è statisticamente finita a poco meno di un anno da oggi - la fanno le istituzioni. Paesi che erano capaci di dare ossigeno alla crescita, attraverso una tassazione parca, una forte valorizzazione del capitale umano, poche regole (e certe) per le imprese, oggi si stanno riprendendo con relativa facilità. Noi non paghiamo il conto della crisi: continuiamo a pagare il conto del pre-crisi.
Per questo va aperta ora una fase nuova, e la riforma dell'università è una buona occasione per sancire questo nuovo inizio. Porta la firma di un ministro giovane e determinato, Mariastella Gelmini. E non è una riforma che richieda solamente l'apertura di nuovi capitoli di spesa. Anzi, con rara saggezza vincola l'utilizzo di nuove risorse all'adozione di buone pratiche ad oggi assenti dall'università italiana.
E' tutto quello che serve ai nostri atenei? Certo che no. L'abbiamo scritto mille volte. Bisognerebbe abolire il valore legale del titolo di studio, per costruire una vera concorrenza fra atenei. Bisognerebbe incentivare fiscalmente il privato, perché imprese e mecenati potessero prendersi in carico cattedre e corsi di laurea come capita ovunque nel mondo. Bisognerebbe abolire i concorsi, perché è meglio un sistema basato sulla cooptazione calmierato da forti meccanismi reputazionali che sanzionano i baroni senza costrutti, che un modello nel quale domina lo "scambio politico" all'interno di qualsiasi disciplina. La riforma Gelmini, è ovvio, non fa né potrebbe fare nessuna di queste cose. Ma è la prima svolta verso il bene comune dal ’68: la riforma della Gelmini è un passo avanti significativo nella direzione di una università con un corpo docente all'interno del quale la parola "merito" torni ad avere un vero significato. Non costa molto, e quel poco non va sprecato perché finisce ad alimentare il futuro dei nostri figli.