Ha ragione chi raccomanda sempre di prendere cum grano salis le classifiche internazionali che mettono assieme, un po’ arbitrariamente, dati macroeconomici sui Paesi del mondo. Sono un esercizio utile, ma ogni tanto sono un po’ come il bikini: quello che mostrano è suggestivo, ma quello che nascondono è vitale.
E del resto, noi italiani mica possiamo avere sempre complessi d’inferiorità nei confronti del resto del mondo. E’ per questo che ritengo significativi lavori di ricerca, come quello della Fondazione Edison e dell’Istituto Aspen, che negli scorsi giorni hanno avuto grande risalto sulla stampa italiana. Perché mostrano qualcosa di effettivamente vitale: i punti forti, della nostra economia e della nostra società. Dall’elevato risparmio privato, all’eccellenza in tanti rami della produzione. Ed è ciò che primariamente ha scelto saviamente di tutelare il governo Berlusconi.
Alcune delle suggestioni che ci vengono dalle classifiche internazionali, però, vanno prese sul serio. Perché se un fatto viene confermato da tante fonti, se una cosa viene vista da tanti occhi, allora forse forse falsa non è.
Per l’Index of Economic Freedom (Heritage Foundation-Wall Street Journal-Bruno Leoni), uno dei tarli che rode la nostra libertà economica è l’incertezza dei diritti di proprietà: ovvero il fatto che è difficile nel nostro Paese ottenere, per via ordinaria, il rispetto dei contratti in caso di controversie. Insomma: la giustizia civile in Italia è piuttosto incivile. Anche per questo motivo, ogni anno che passa scivoliamo giù nella classifica “Doing Business” della Banca Mondiale.
Che cosa significa? Vuol dire due cose. Da una parte, la nostra giustizia amministrativa è troppo lenta. In Italia infilarsi in un procedimento, e ben lo sanno gli imprenditori, vuol dire sapere quando si comincia ma non quando si finisce. Le lungaggini sono infinite. Più lunghi si va, più quattrini si disperdono in avvocati anziché investirli laddove più servirebbero: cioè in azienda. Più tempo si perde in cause amministrative, più sono scoraggiati gli investimenti. Soprattutto dove e quando è richiesta una grande quantità di capitale, l’alta probabilità di avere intoppi al momento realizzativo equivale, di fatto, a un aumento dei costi ovvero a una diminuzione della resa del capitale stesso.
Le grandi opere in Italia non si facevano, e anche con questo governo che pure fortissimamente ci crede si fa fatica a portarle avanti, non solo e non tanto perché manchi la volontà politica: ma perché se ci si infossa in una “magagna” (perdonate il termine colloquiale, ma è il più appropriato) è talmente difficile venirne fuori, che le imprese ci pensano tre volte prima di impegnarsi.
Anche per questo, più ancora che per l’elevata tassazione, le grandi multinazionali riflettono molto seriamente prima di venire nel nostro Paese. La tassazione sulle imprese è alla fine in linea con la media internazionale, e per certi versi meno scomoda di quella americana, nei suoi adempimenti amministrativi. Bisogna migliorare, ma non è quello il primo problema. Il primo problema è l’incertezza del diritto che invero tristemente ci contraddistingue.
Cosa fare? Semplificare, semplificare, semplificare. La lettera della legge, e assieme le procedure amministrative. Che non significa ignorare le lamentele dei cittadini, passare da un estremo all’altro. Ma tenere conto dell’elevata litigiosità del Paese, per cercare di farne emergere col tempo un profilo diverso, più virtuoso, più capace di contemperare esigenze diverse,
Roberto Calderoli al governo sta facendo molto. Ancora di più va fatto, mettendo a fattor comune la vasta mole di studi che in questi anni si è andata sommando su semplificare, e seguendo quali modelli. Per attrarre più investimenti esteri, per creare più ricchezza, per non vivere nell’Italia dei no. E’ vero invece che i tempi dei processi civili sono una vera tassa occulta che tiene ingessato il paese.