La Cina è ormai la seconda potenza economica mondiale: questo è un fatto, e la notizia che il divario commerciale fra Cina e Stati Uniti si stia avviando verso una sostanziale riduzione ha fatto parlare i grandi media. Si stima che fra 22 anni la Cina sorpasserà gli Stati Uniti diventando la più grande e potente nazione al mondo.
Negli ultimi anni, i cittadini cinesi risparmiavano molto e i cittadini americani molto poco. La crisi finanziaria del 2007-2008 è nata così. La scarsa propensione degli americani al risparmio, alimentata da un’offerta sovrabbondante di moneta da parte della loro Banca centrale, li ha esposti a un terribile indebitamento. Il debito statunitense è stato comprato in larga misura dai cinesi. Questo è, detto con sintesi tanto estrema da apparire cruda, il nocciolo dei cosiddetti “global imbalances”, gli scompensi globali che rendono meno sicura e meno stabile la nostra globalizzazione.
Come ha ben scritto Paul Krugman sul Sole 24 Ore e sul Financial Times, la situazione che si è ora determinata fra Stati Uniti ed America è figlia in buona misura della costante sottovalutazione dello yuan. Rivalutarlo, come gli Stati Uniti chiedono, è una prima tappa verso la soluzione di quegli “scompensi permanenti” che non possono e non debbono contrassegnare la storia economica della Cina del futuro.
La Cina di domani non può continuare a crescere solo sull’onda di un dumping permanente. Scherzando, un mio amico dice spesso che i sindacati italiani dovrebbero diventare azionisti delle imprese cinesi: rendendo così effettivamente disponibili ai lavoratori del Celeste Impero quegli stessi diritti sociali di cui godono i nostri. Ciò è in tutta evidenza una battuta, ma contiene elementi di verità. La straordinaria vocazione al risparmio dei cinesi è frutto in larga misura dell’assenza di una rete di sicurezza sociale. A dispetto delle visioni superficiali, i cinesi non sono poco tassati: ma per le loro tasse, poco ricevono in cambio dallo Stato. Molto probabilmente, in un territorio della vastità e dell’estensione e della diversità interna della Cina è impossibile strutturare uno Stato sociale vero e proprio. Eppure, la presenza di una rete di sicurezza minimale, e un obbligo a veicolare il risparmio attraverso assicurazioni contro il rischio di vecchiaia e di malattia, nello spirito di un welfare privato e sussidiario, non solo renderebbero disponibile dalla sera alla mattina una messe incredibile di risparmio gestito. Esse consentirebbero ai cinesi di spendere pian piano di più, calmierando (non certo eliminando) la propensione al risparmio che gli viene da secoli in cui sono vissuti in un regime di “aiutati che il ciel t’aiuta”.
Non dobbiamo pensare sia possibile imporre ai cinesi un modello di sviluppo che non è il loro; ma, come ha riconosciuto di recente Francesco Giavazzi, sarebbe prezioso che l’Occidente facesse sentire la propria voce rispetto ai più fondamentali diritti umani e democratici, ancora spesse volte calpestati dal Partito assieme al dissenso. Questo sarebbe molto morale, e sarebbe anche molto… conveniente. Dobbiamo essere partner della Cina, mettendo a disposizione la nostra storia e la nostra esperienza perché essa riesca ad accompagnare il suo sviluppo tumultuoso. E’ importante che ciò avvenga, perché non si arrivi nella peggiore delle soluzioni possibili: un deragliamento della locomotiva cinese, che sarebbe disastroso per tutti.
Nessuna di queste considerazioni, però, esenta le imprese italiane dal considerare già oggi la Cina per quello che è. Un grande mercato, chi ci è andato con scienza e coscienza ha trovato grandi ostacoli ma anche grandi opportunità. Oggi una impresa italiana che voglia essere grande non può fingere che la Cina non esista. Il futuro è a Oriente - e può restare anche ad Occidente. Dobbiamo solo imparare gli uni dagli altri.