Il peggio è passato? I dati del sistema camerale raccontano un’Italia nella quale la voglia di fare impresa è sopravvissuta alla crisi economico-finanziaria. In cima alla piramide c’è, e non è una sorpresa, la Lombardia e Milano.
La Regione e la città stanno tenendo testa alla crisi e a dirlo sono le cifre: i numeri delle imprese attive innanzitutto. A Milano operano 287 mila imprese, sulle circa 5 milioni e 300mila imprese presenti su tutto il territorio nazionale - numero praticamente analogo a quello dello scorso anno (-0,1 per cento). Le imprese del capoluogo lombardo contano per il 5,4 per cento del totale delle imprese italiano.
Questi dati sono in linea con l’esperienza di ciascuno di noi cittadini milanesi. La nostra città negli ultimi due anni ha visto un grande ricambio nel tessuto imprenditoriale. La crisi ha fatto chiudere esercizi commerciali, ha razionalizzato i circuiti della produzione. Ma ha anche creato nuove opportunità. fate un giro in centro e contate le vetrine nuove. E’ un’esperienza esaltante. Si vede, passo dopo passo, come la città stia cambiando, come si stia evolvendo nella lunga marcia verso l’Expo. Il cuore produttivo del Paese ha voglia di rilanciarsi, seguendo quell’afflato imprenditoriale che da sempre gli è proprio.
I dati del sistema camerale dicono che Lombardia, Veneto, Piemonte e Emilia Romagna non si sono arresi. La fioritura di iniziative è in parte il riflesso di buone scelte politiche. In Lombardia, ad esempio, le start up sono fortemente incentivate, e così pure l’imprenditoria giovanile, con un trattamento fiscale di favore. La strada tracciata con intelligenza da Roberto Formigoni è stata seguita, in misura maggiore o minore, anche dai suoi colleghi. Ma è inutile illudersi che sia abbastanza, o che sia lo Stato, il pubblico, a potersi intestare questa “risorgenza imprenditoriale”.
In Italia si fa impresa “nonostante” la presenza della mano pubblica, “nonostante” regole e tasse, da sempre. E’ che la cocciutaggine imprenditoriale si impone su tutto. Fare impresa significa dare risposta a un bisogno fondamentalmente. Il bisogno di creare qualcosa. Diceva bene il filosofo cattolico Michael Novak: essere imprenditori è una “vocazione”.
Comparativamente, al Nord questa vocazione è meno ostacolata che al Sud. Le condizioni dell’ordine pubblico consentono di avere un minimo di certezza circa il futuro dei propri investimenti. La presenza di una comunità imprenditoriale fitta e ben frequentata produce una sorta di “effetto serra”. E’ più facile crescere, se lo si fa in un contesto favorevole, nel quale non ci si sente soli.
Ma sarebbe sciocco illudersi che stiamo già facendo abbastanza. L’impresa italiana - lo hanno ben dimostrato due studiosi veneti, Paolo Feltrin e Giuseppe Tattara, in un libro appena uscito da Bruno Mondadori - ha straordinarie capacità adattative. Si è adattata per anni ad un ambiente normativo inospitale e complesso, a relazioni industriale ingessate e ideologiche, a norme arbitrarie quando non imprevedibili. Si è integrata nei mercati internazionali, da cui ha tratto forza. E’ la creatività dei nostri imprenditori, è la loro capacità di creare valore, ciò che non solo li ha salvati ma li ha fatti prosperare: anche nelle curve della crisi.
Complimenti agli imprenditori italiani, questo dobbiamo dire. Ma dobbiamo anche prendere provvedimenti. Non lasciarli solo. Aiutarli a mettere a sistema la loro innovazione, per esempio con una più puntuale collaborazione con le università, come prevede la riforma Gelmini. C’è molto da fare, ed è importantissimo farlo, in un momento così delicato per l’economia europea. Anche per questo non possiamo permetterci salti nel vuoto.